“I luoghi che curano” di Paolo Inghilleri

La natura e l’ambiente sono in grado di influire sul benessere psico-fisico? Le opere d’arte o l’architettura sono capaci di farci stare bene? I luoghi, gli oggetti e i paesaggi naturali possono realmente curare gli esseri viventi?

Nel suo ultimo libro I luoghi che curano edito da Raffello Cortina Editore, Paolo Inghilleri – medico, specializzato in Psicologia e Professore Ordinario di Psicologia Sociale presso l’Università degli Studi di Milano – affronta il tema della capacità terapeutica dei luoghi, degli oggetti e della natura, illustrando come dovrebbero essere i paesaggi, le città o ancora le costruzioni architettoniche idonee a “curare” e a farci star bene.

L’autore propone esempi concreti e casi reali – dai piccoli santuari italiani, ai luoghi di culto e di memoria, alle opere dei grandi architetti, fino agli slum di Mumbai o di Nairobi, dalle cui reti informali di aiuto reciproco e di mediazione dei conflitti derivano sistemi di sostegno psicologico, sociale e politico.

Ma I luoghi che curano è un libro “ampio”, che apre diversi scenari di riflessione.

A partire dalla premessa sul benessere e malessere dell’individuo in rapporto al contesto e dalle cause psicologiche e sociali di questa sofferenza – come ad esempio la crisi economica, le eccessive possibilità di scelta o ancora il destino incerto del pianeta – l’autore si preoccupa di individuare le caratteristiche dei luoghi e delle relazioni che si instaurano in essi, capaci di procurare benessere, di far vivere emozioni positive e di agire in maniera curativa.

Esistono, dunque, luoghi che curano e che ci fanno bene non solo perché significano qualcosa di positivo, ma anche perché ci sono socialità che li riconoscono: sono proprio le caratteristiche relazionali tra l’individuo e il contesto in cui è immerso a rendere i luoghi capaci di suscitare emozioni. Ma quando un luogo diventa piacevole? Un luogo – sostiene Inghilleri – per essere piacevole, deve contenere aspetti simbolici, capaci di attivare un senso di familiarità e di novità, quindi deve rappresentare qualcosa di nuovo, ma allo stesso tempo legato all’individuo.

I luoghi sono, infatti, oggetti e, come tali, oltre ad avere una funzione psicologica, sono psichici, ovvero fanno parte di noi stessi.

Per questo, “quando una persona perde la casa – sottolinea Inghilleri – per l’esilio, ma anche per povertà, o per un trasferimento improvviso o non desiderato, essa perde in parte la sua identità ed è messa alla prova psicologicamente con diversi livelli di gravità e sofferenza psichica: è questo un altro possibile fattore dello star male oggi per molti abitanti del pianeta, anche nel mondo occidentale”.

Se, dunque, a livello individuale, “quando lasciamo un luogo ci portiamo sempre dietro un oggetto che ci fa sentire legati” ad esso, proprio per mantenere vivo questo legame con il luogo a noi caro, è importante che anche a livello sociale le città delle società multiculturali siano progettate per mantenere aperti e attivi questi legami tanto con il vissuto della propria infanzia, quanto con la propria cultura di appartenenza, ad esempio attraverso luoghi di culto religiosi. Nelle parole di Inghilleri: “i luoghi devono trasmettere identità e costruire ponti tra culture diverse, ponti che alla fine creano legami e uniscono le persone”.

Un altro importante tema del libro, con particolare attenzione al futuro ambientale del pianeta, è dedicato agli effetti benefici della natura sulla mente e sul comportamento, e dunque all’innata biofilia dell’essere umano.  Diverse ricerche, infatti, hanno evidenziato come il frequentare spazi verdi e naturali influenzi in modo positivo pensieri ed emozioni, favorendo un approccio rigenerativo dell’attenzione, nonché resiliente ai traumi. «Tanti studi affermano che una relazione intima con la natura, specie durante l’infanzia. È indispensabile per instaurare legami significativi non solo con il mondo naturale ma, in generale, con le altre persone» aggiunge Inghilleri.

L’autore si chiede quindi se sia possibile utilizzare i luoghi per curare e, nell’ultima parte del volume, passa in rassegna l’opera di alcuni architetti e urbanisti – come Alejandro Aravena, Stefano Boeri e Renzo Piano – che, con i loro progetti relativi ai grandi come ai piccoli spazi, hanno messo in atto meccanismi rigenerativi e di cura, che i luoghi possono produrre.

Se il tema della protezione, cioè qualcosa che l’individuo crea in modo attivo, utilizzando l’ambiente circostante, e l’analisi dei fattori “protettivi” dell’essere umano – come ad esempio la capacità di comprendere l’altro e di collaborare attraverso l’empatia, la predisposizione alla resilienza, la tendenza innata a raggiungere stati esperienziali positivi – ha occupato le pagine iniziali del libro, il volume si conclude con una riflessione, che è anche un invito, a diventare attori di una relazione nuova, sostenitori di quello che Inghilleri definisce un “narcisismo altruista”, che è capace di conciliare il soddisfacimento dei propri desideri personali con il rispetto per l’ambiente e i bisogni dell’altro.